Misericordia e verità
Per
una buona celebrazione del sacramento di riconciliazione
Ciascuno sappia
bene che lui stesso è un peccatore e, per ricevere il perdono, si rallegri di
aver trovato a chi perdonare. Leone Magno
Gli infermi, Dio
li prende in braccia, e i forti, Dio li conduce per mano. Francesco di Sales
A prima
vista, sembra che vi sia incompatibilità fra misericordia e verità. Dove opera
la misericordia, si deve necessariamente (così si pensa) sorvolare sulla “verità”
e sacrificarne le esigenze. Applicata al caso della confessione delle colpe e
del perdono sacramentale, questa incompatibilità sembra ulteriormente
accentuata. L’amore di Dio è più grande delle nostre miserie; non resta che
sottomettervisi. Ma nei fatti è così?
Per vederci più
chiaro, vorrei soffermarmi brevemente sulla pericope evangelica di Zaccheo (cf. Lc 19, 1-10) in
cui si trova proprio il binomio in questione e la sua articolazione: Zaccheo
prende coscienza del suo peccato, si converte e compie opere di penitenza (verità) dopo essere stato oggetto della misericordia sovrabbondante di Gesù. È
come se la misericordia divina fosse il luogo di emergenza della sua identità.
Detto altrimenti, il penitente non si rivolge alla misericordia divina con la
verità delle sue colpe, ma è la misericordia divina che gli rivela ciò che è
davanti ad essa e lo spinge alla conversione. È questo rovesciamento di
rapporto che il titolo del mio intervento suggerisce. Non è la verità di sé che
fa accedere alla misericordia di Dio, ma la misericordia alla verità.
Già si
intuisce che questa inversione potrà avere conseguenze sul piano concreto della
celebrazione sacramentale del perdono. Ma prima di riflettere su questo punto (2), vorrei ritornare rapidamente alla
pericope di Zaccheo appena evocata (1).
Una breve conclusione ricapitolerà l’essenziale dell’esposizione (3).
1. La pericope di Zaccheo (Lc 19, 1-10)
1(Gesù) entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei
pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era
Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo,
salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e
gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È entrato in casa
di un peccatore!”. 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse
al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se
ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. 9Gesù gli rispose: “Oggi per questa
casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il
Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”. (Lc
19, 1-10)[1].
Nei
commentari consultati per questo intervento[2], si
insiste sulla ricchezza di questa pericope lucana che ha conosciuto, nel corso
della storia del pensiero cristiano, una recezione continua e variegata[3]. Un commentatore
segnala per esempio che Gesù non si preoccupa del codice della morale borghese
dell’epoca che escludeva persone come Zaccheo dal circolo dei “benpensanti”.
Ciò evidentemente non significa che Gesù minimizzerebbe e persino accetterebbe
il peccato. La colpa non è assolutamente dimenticata, ma, afferma lo stesso
commentatore, “la misericordia di Dio è più rapida del pentimento e della
confessione”[4].
L’accumularsi, al v. 5, di espressioni ordinate alla salvezza come l’“oggi”, il
“devo” e il “dimorare presso di te” fa intendere che Dio accetta pienamente il
peccatore[5].
La folla si mostra
scandalizzata dall’atteggiamento di Gesù. Lo accusa di essere andato ad
alloggiare da un peccatore. Dal punto di vista redazionale (v. 8), è
l’occasione per il pubblicano Zaccheo di giustificarsi. Egli si è veramente
convertito ed è pronto a dimostrare il suo pentimento producendo frutti di penitenza.
La questione di sapere se è il perdono divino che produce la gratitudine umana
o se sono l’elemosina e i gesti di carità ad avere il perdono come conseguenza,
è mal posta, ritiene Ernst. I due punti di vista sono presi in considerazione e
sono illuminati dal nucleo del suo racconto, e cioè che la grazia immeritata è
offerta al peccatore.
Detto ciò,
ritorniamo alla nostra prospettiva di partenza secondo cui la misericordia
divina è condizione di possibilità della presa di coscienza di sé del peccatore
davanti a Dio. Trova appoggio nel testo lucano? Secondo l’esegesi scientifica
appena consultata, ciò non è immediatamente evidente. Ma secondo la mens del testo, si
potrebbe, mi sembra, rispondere con un sì. È come si Zaccheo si specchiasse nella bontà imprevedibile e illimitata di Gesù e
prendesse coscienza della sua malizia, il che lo spinge a un cambiamento
radicale di vita.
Diamo dunque
per acquisito che, per l’evangelista san Luca, vi sia un rapporto inverso tra
la misericordia divina e la verità del peccatore che vi si avvicina. È alla sua
luce che il peccatore si comprende e riceve la forza di volgersi verso di essa.
2.
Le conseguenze
del rapporto invertito tra verità e misericordia
È ben inteso
che, nel processo complicato del cammino penitenziale, l’aspetto ricordato qui
non è l’unico percorso. L’amore senza limiti di Dio per l’uomo, da una parte, e
la complessità del “cuore” (cf. Ger 17, 9-10) di ogni persona
davanti a Dio, d’altra parte, rendono possibili itinerari diversificati
dell’incontro Dio-uomo. L’insistenza sul binomio misericordia/verità quale
presentata precedentemente non vuole dunque mettere ciò in questione. Vuole
molto semplicemente mettere in evidenza un percorso autorizzato dalla Scrittura
che si può già intuire particolarmente significativo per una esperienza
penitenziale efficace e di qualità. Per illustrare questo, vorrei ora
riflettere rapidamente su ciò che implica per il confessore e per il penitente
l’attuazione del nostro binomio “misericordia-verità”.
1/ Per il confessore innanzitutto: Il confessore
ha la missione di essere nella sua persona espressione dell’amore illimitato e indomabile di Dio per il penitente
che si presenta a lui.
Nel quadro
del nostro incontro di oggi, non mi spetta di descrivere nel dettaglio ciò che
implica questa missione, perché la maniera di compierla è, in realtà, propria
ad ogni persona. Alcuni elementi generali possono tuttavia essere segnalati e si
potrebbe ricavarli dalla figura del padre di un’altra pericope lucana, quella
del “figliol prodigo” (cf. Lc 15, 11-32)[6]. Senza
parlare della necessità per il confessore di essere uno “spirituale” nel senso
forte del termine e dunque di essere come la “mano” dello Spirito Santo che
modella i “cuori”, il che è ben diverso dal cosiddetto “funzionario” dello spirituale,
il confessore deve avere la statura di un padre – sant’Alfonso Maria de Liguori
(†1787), patrono dei confessori, aggiunge questo tratto agli altri tratti di
giudice, medico e dottore, ammessi tradizionalmente[7] –, non
nel senso paternalista del termine, ma nel senso appunto del padre della
parabola del “figliol prodigo”. In che senso?
Un padre ama
i suoi figli in modo incondizionato. Nel caso di un figlio recalcitrante ma che
si pente e torna a casa, questo amore incondizionato prende la forma di una
relativizzazione della confessione della colpa (tornerò poi su questo punto) a
motivo della gioia esuberante di veder tornare il figlio. Questa gioia è tanto
più inebriante, persino abbagliante, in quanto preceduta dall’attesa, dal
desiderio intenso di veder tornare il figlio perduto (cf.
Lc 15, 20)[8]. Applicato
al confessore, questo tratto del padre della pericope evangelica evoca la
preghiera incessante per il ritorno dei “prodighi”, dei penitenti a venire.
Misteriosamente, la preghiera-attesa esercita come un’attrazione, un fascino dei
cuori verso l’incontro con l’amore divino. Ogni vero confessore ha fatto
l’esperienza di questo dinamismo nascosto, ma assai reale della grazia
preveniente.
In questo
caso, domina la gioia. Un confessore triste è un triste confessore. Ciò detto
senza negare la drammatica realtà del peccato. Il peccato è triste come la
sofferenza del Figlio dalla duplice “avversione”: l’“avversione” del Padre che “abbandona”
il Figlio “fatto peccato per noi” (cf. 2Cor 5, 21): “Padre, perché mi hai
abbandonato?” (cf. Mc, 14, 34) e l’”avversione” del Figlio verso il Padre a seguito
dell’abbandono della casa paterna dovuto alla sua solidarietà con il peccato
del mondo. Ma a questo stadio del processo penitenziale, il penitente ha
rinnegato il suo peccato e torna verso la casa paterna. Il momento non può
dunque essere che di gioia e di festa. E il confessore deve riflettere questa
gioia che è, al fondo, quella di Dio stesso (cf. Lc 15, 10. 22-24).
In questo
contesto, vi è posto per le rimostranze? Il padre del prodigo non ne fa. Egli
infatti suppone che suo figlio abbia preso coscienza del suo errore e ne abbia
tirato le conseguenze. Ma se ce ne fosse bisogno, esse dovrebbero essere
impregnate di benevolenza paterna in modo da sollevare o accentuare la gioia
del ritorno piuttosto che oscurarla. Un confessore che sommergesse il penitente
di rimproveri col pretesto di aiutarlo a prendere coscienza dei suoi torti e a ripararli
si situerebbe, mi sembra, fuori della misericordia divina che è chiamato, per
ripeterlo di nuovo, a manifestare. Con il rinnovamento della celebrazione della
riconciliazione, mi sembra che questa specie di confessori sia in via di
estinzione. Fortunatamente!
“La carità è longanime”
(1Cor 13, 4), dice san Paolo. Il peccato
implica spesso ricadute. Ogni confessore, icona della misericordia divina, sa
che il figlio ha bisogno di tempo prima di stabilirsi in permanenza nella casa
paterna. Egli non si stupisce delle incoerenze del penitente che, dopo aver
sinceramente promesso di rinnegare il suo peccato, vi ritorna spesso. La misura
del perdono è quella che il Signore richiede ai fratelli feriti da altri. “Settanta
volte sette” (cf. Mt
18, 22). Il buon confessore deve adottare questa misura divina. Essere
rappresentante assiduo della “pazienza (divina) della maturazione” (sant’Ireneo)
non è un compito facile. Ma poiché questo atteggiamento scaturisce dalla
misericordia divina, è imprescindibile. E del resto, a forza di ricevere il
perdono di Dio, il penitente si agguerrisce e, con la forza del perdono divino
sempre dato con benevolenza, le abitudini peccaminosi perdono il loro mordente
per sparire poco a poco completamente. Molti tra di voi, potrebbero
probabilmente confermare questa affermazione.
Per
concludere questo ritratto del confessore “sacramento” della bontà divina,
vorrei insistere sull’umiltà. “La carità tutto sopporta” (1Cor 13, 6) ci dice ancora san Paolo. Il confessore che è stato ed
è sempre soggetto del perdono divino usa gli stessi atteggiamenti di cui è
stato oggetto quando anche lui è stato “figlio prodigo”. Il precetto centrale
della “regola d’oro” si applica qui al massimo: “tutto quanto volete che gli uomini
facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti”
(Mt 7, 12; cf.
Lc 6, 21). Non si tratta di un
richiamo moraleggiante, ma delle conseguenze inerenti alla missione di essere
il segno concreto dell’amore divino poiché la “regola d’oro” ha, a monte, il
suo fondamento nell’amore illimitato del Padre, che fa sorgere il suo sole sui
buoni e sui cattivi (cf. Mt, 5, 45). La logica dell’amore divino che brilla, mediante il
confessore, agli occhi del penitente sorge dal centro stesso di questo amore.
2/ Per il penitente poi: è incontestabile
che l’esperienza dell’amore divino vissuto nel confessionale aiuti a prendere coscienza del valore insostituibile
del sacramento della riconciliazione per la crescita della vita cristiana e la sua
realizzazione. La prova è che l’inverso suscita spesso, ahimè, l’abbandono
del sacramento o l’abbandono della pratica religiosa stessa o addirittura della
fede tout court. Molti tra di voi
sono stati forse testimoni rattristati di questi comportamenti.
L’esperienza
dell’amore divino fatta in confessionale suscita anche un effetto positivo nei
cuori e rimanda più facilmente il
penitente alla sua identità davanti a Dio. L’amore divino si fa qui luce.
Dinanzi al dono radicale di Dio nel suo Figlio crocifisso significato dal
confessore, l’uomo si sente come spinto a rispondervi con un amore simile.
Concretamente, questa risposta amorosa all’amore divino sempre più grande aiuta
il penitente a prendere coscienza delle sue colpe come esse sono realmente e a
non manipolarne la consistenza. Il raffinamento dell’esame di coscienza che
precede l’accusa dei peccati non viene da una coscienza morbosa o scrupolosa. Venuto
dall’amore al seguito dell’amore divino mediato dal confessore, questo esame diventa specchio, riflesso di
identità.
Ma vi è
ancora di più – e ritorniamo così alla nostra pericope di partenza. Davanti
all’amore divino, il penitente prende coscienza della gravità delle sue colpe.
Esse sono sempre, in qualche maniera e secondo diverse intensità, indifferenza
all’amore divino e rifiuto di questo amore espresso nelle norme. È da questa
presa di coscienza che nascono la conversione e i comportamenti che
l’accompagnano. Zaccheo è stato talmente soggiogato dalla grandezza dell’amore
di Cristo che ha deciso, lui il collettore d’imposta conosciuto per il suo
egoismo e il disprezzo dei suoi simili, di donare a coloro che aveva derubato
molto più di ciò che richiedesse la semplice giustizia.
Prima mi sono
mostrato piuttosto reticente riguardo alle rimostranze indirizzate al
penitente. Reticente perché ciò potrebbe far ombra all’amore divino che il confessore
è chiamato a far risplendere, ma più profondamente ancora, perché l’amore
divino è già all’opera nel cuore del penitente serio e responsabile. A rigor di termini, il confessore potrebbe intervenire –
sempre con la delicatezza dell’amore – solamente dove l’amore divino, pur chiaramente
manifestato, è stato preso alla leggera, la sua luce ricevuta a piccole dosi,
la chiamata alla conversione di fatto misconosciuta. Questo tipo di intervento
non va contro l’amore divino. È esattamente il contrario. Esso è ordinato ad
attirare l’attenzione su questo amore e a invitare a cor-rispondervi.
3.
Conclusione
E ciò mi
conduce a concludere queste brevi riflessioni con una scenetta di Teresa di Lisieux
applica all’amore di Gesù verso le anime “imperfette” che si affidano a lui. È
tratto da una lettera che la carmelitana scriveva al Reverendo Maurice Bellière, il 18 luglio 1897, qualche mese prima della sua
morte avvenuta il 30 settembre dello stesso anno.
Io immagino –
scrive – che un padre abbia due figli birichini e disubbidienti e che, giungendo
per punirli, ne veda uno che trema e si allontana da lui con terrore, pur sapendo
in fondo al cuore che merita di essere punito, mentre invece il fratello si
getta tra le braccia del padre, dicendo che gli spiace di averlo addolorato, che
lo ama e che, per provarlo, d’ora in avanti, sarà buono. Poi, se questo figlio domanderà
al padre di punirlo con un bacio, non credo che il cuore di quel
padre felice possa resistere alla fiducia filiale del suo figlio di cui conosce
la sincerità e l’amore. Tuttavia non ignora che più di una volta suo figlio ricadrà
negli stessi errori, ma è disposto a perdonargli sempre, se suo figlio lo
prenderà sempre dalla parte del cuore…[9].
Ci sarebbe
parecchio da dire su questo testo insieme semplice e profondo uscito diritto
dal cuore di questa grande santa dottore della Chiesa che è Teresa di Lisieux. Nella
logica delle riflessioni che precedono, vorrei trarre da questo testo due
espressioni: “punire con un bacio” (sottolineato nell’originale da Teresa) e “prendere
(il padre) dalla parte del cuore”.
Gesù-Padre appare
qui come un padre benevolo, un padre dall’amore illimitato. È in effetti colui
che dimentica tutte le malefatte del suo figlio per il solo fatto che
quest’ultimo si getta tra le sue braccia per essere punito “con un bacio”.
L’amore paterno è soddisfatto dall’amore fiducioso e sincero della sua
creatura. E il perdono è incessante[10] a
patto che il Padre sia “preso dalla parte del cuore”.
***
In tal modo,
si vede che l’ultima verità del penitente
in presenza dell’amore divino “iconografato” dal confessore
non è in definitiva nei suoi torti e nella sua miseria, ma nella sua dignità di figlio che dà di cercare
il Padre e, prendendolo dalla parte del cuore, riceverne immancabilmente il
perdono.
Réal Tremblay, C.Ss.R.
(Questa conferenza fu pronunciata
nel Palazzo della Penitenzieria Apostolica, il 18 febbraio 2014, alle ore 16.)
[1] La traduzione è della Conferenza
Episcopale Italiana (2008).
[2] J. Ernst, Il
vangelo secondo Luca, vol. II, Morcelliana,
Brescia, 1985, 721-727 (Originale: Das Evangelium nach Lukas, Pustet, Regensburg, 19775, 513-516; F. Bovon, L’Évangile selon saint Luc
(15, 1–19, 27) (Comm. du NT IIIc),
Labor et Fides, Genève,
2001, 232-246 (con una abbondante bibliografia).
[3] Cf. Bovon, L’Évangile selon saint Luc,
244-246.
[4] Ernst, Il
vangelo secondo Luca, 725.
[5] Cf. Ernst, Il vangelo secondo Luca, 725. Bovon completa così il pensiero di Ernst: “Suivant une convention littéraire biblique, l’invitation à la table suggère une intention divine. L’adverbe «aujourd’hui» et le verbe «il faut» confirment la mise en place d’une stratégie salvifique. Le représentant de Dieu interrompit son voyage pour «rester», pour «demeurer» chez Zachée. Tous ces termes prosaïques prennent ici une connotation sacrée” Bovon, L’Évangile selon saint Luc, 241.
[6] In una prospettiva differente, ho cercato
altrove di riflettere sul sacramento della riconciliazione alla luce di questo
racconto lucano. Cf.
R. Tremblay, L’«innalzamento» del Figlio, fulcro della vita morale, Pontificia
Università Lateranense, Roma, 2001, 97-111. Cf. anche
il testo suggestivo di S. Zamboni,
Allontanamento e ritorno alla casa del
Padre: peccato e conversione, in R. Tremblay/S.
Zamboni (a cura di), Figli nel
Figlio, Una teologia morale fondamentale, EDB, Bologna, 20102,
297-318.
[7] Cf. Praxis confessarii,
cap. I, 2-20 (Theologia Moralis [ed. Gaudé], Romae, 1912, IV, 528-539.
A proposito del ruolo di padre, egli scrive: “Confessarius,
ut boni patris partes adimpleat, debet charitate esse plenus” (Ibid., 528).
[8] J. Ratzinger/Benedetto XVI descrive così
l’incontro del padre con il “figlio prodigo”: “Il padre vede il figlio «quando
è ancora lontano» e gli va incontro. Ascolta la confessione del figlio e vede
in essa il cammino interiore da lui percorso, vede che ha trovato la strada
verso la vera libertà. Così non lo lascia
neppure finire di parlare, lo abbraccia, lo bacia e fa preparare per lui un
grande gioioso banchetto” Joseph
Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, 2007, 243. (Sottolineatura
mia).
[9] LT. 258, 2ro-2vo,
in Teresa di Gesù Bambino e del Volto
Santo (santa), Opere complete. Scritti e ultime parole, Libreria
Editrice Vaticana/Ed. OCD, Città del Vaticano/Roma, 1997, 598. (La
sottolineatura è di Teresa).
[10] Risuonano qui i numerosi interventi di Papa
Francesco sul perdono infaticabile di Dio verso di noi. Cf.
tra altri, Evangelii Gaudium n. 3.