“Colui che pende dal patibolo del Golgota è adorabile. Ma affinché la nostra adorazione sia vera, bisogna riconoscerlo anche nel nulla degli elementi eucaristici e divenire, consumandolo, pane spezzato e vino versato per i nostri fratelli. Fare nostra la fede adorante del centurione di fronte al Crocifisso appena morto — “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39) — senza accettare di diventare sacramentalmente una caro con lui e, da là, δοῦλοι dei fratelli, sarebbe annientare la croce, “renderla vana” (cf. 1 Cor 1,17). In positivo: credere alla croce, all’Amore che vi si trova, implica che la si porti, cioè che la si diventi. L’adorazione del Crocifisso “in spirito e verità” connota una pro-esistenza fino alla morte. L’Ave Crux che Edith Stein evocava alla fine di una delle ultime lettere alla sua priora irradiava una luce singolare, proprio quella della verità, poiché aveva la densità del martirio da subire per i suoi fratelli ebrei che la carmelitana aveva già da tempo intuito e accettato e che era ormai sul punto di realizzarsi.”. L’«Innalzamento del Figlio, fulcro della vita morale», Pontificia Università Lateranense / Mursia, Roma 2001, p. 54. |